Delitti: Il progetto di Pietro Maso
I coniugi Maso vengono ritrovati brutalmente massacrati. Una rapina? La verita' e' molto piu' sconcertante di quello che gli inquirenti avevano immaginato.
INFO
Pietro Maso (San Bonifacio, 17 luglio 1971) è un criminale italiano.
È il protagonista reo confesso di uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana. Aiutato da tre amici, il 17 aprile 1991 nella sua casa di Montecchia di Crosara uccise entrambi i suoi genitori, Antonio Maso e Mariarosa Tessari, servendosi di un tubo di ferro e di altri corpi contundenti tra cui spranghe e un bloccasterzo. La motivazione era intascare subito la sua parte di eredità. Fu condannato a 30 anni di reclusione, scontata in carcere fino ad ottobre 2008, quando ha ottenuto il regime di semilibertà.
Delitto
Il delitto avviene nella notte fra il 17 e il 18 aprile 1991. Quella sera Maso, Carbognin, Cavazza e Burato si ritrovano nel Bar John di Montecchia che usavano frequentare, e discutono gli ultimi dettagli. Un loro amico, Michele, è informato del progetto affinché ne prenda parte, ma crede che i quattro ragazzi stiano scherzando. Quando poi i ragazzi lasciano il bar, Michele li accompagna in casa di Pietro, ma seguita a non credere, finché decide di rinunciare. Alle 23, i genitori di Pietro non si trovano ancora in casa, poiché stanno tornando da Lonigo dove avevano preso parte a un incontro dei neo-catecumenali.
Pietro è al corrente di questo in quanto aveva domandato al padre il prestito della sua automobile per recarsi in discoteca. Sa quindi che a minuti, i genitori faranno ritorno a casa. Alle 23.10 infatti l'auto giunge nel garage. Antonio accende la luce ma si accorge che manca la corrente. Così sale le scale per raggiungere, al primo piano, il contatore. Giunto in cucina, viene subito colpito dal figlio, armato di un tubo di ferro; Damiano lo colpisce a sua volta con una pentola. Poco dopo arriva Rosa e viene aggredita da Paolo e Giorgio, armati rispettivamente di un bloccasterzo e un'altra pentola. La madre di Pietro non muore sul colpo, così il figlio interviene e oltre a colpirla lui stesso, cerca di soffocarla mettendole in gola del cotone e chiudendole la faccia in un sacchetto di nylon. Nel frattempo Paolo si accanisce contro il signor Maso premendogli il piede sulla gola. Cinquantatré minuti dopo i primi colpi, le due vittime cessano definitivamente di respirare.
A delitto compiuto, i ragazzi si disfanno degli oggetti serviti allo scopo, e anche delle tute utilizzate per proteggersi dal sangue. Da notare che Burato, Carbognin e Cavazza avevano indossato delle maschere. Paolo e Damiano rientrano a casa. Pietro, invece, ha bisogno di crearsi un alibi, così con Giorgio si reca in due diverse discoteche (nella prima non riescono ad entrare perché piena). Alle 2 del mattino rientra a casa per fare la finta scoperta. Avverte i vicini di aver visto, salendo le scale, "due gambe". Appare scosso e impaurito. Uno dei vicini entra in casa, sale le scale e scopre la scena.
INDAGINI
Dapprima, come si auguravano i ragazzi, viene battuta la pista di un omicidio a scopo di rapina. Ma ci si accorge ben presto che si trattava di un furto simulato. Un carabiniere anziano sospetta di un particolare: i cassetti sono stati trovati aperti e il contenuto gettato intorno alla stanza quando un ladro, di solito, usa aprirli, limitarsi a cercarvi denaro e roba di valore e poi richiuderli. Questo e altri aspetti deviano gli inquirenti verso la pista più atroce, che l'assassino sia appunto il figlio, il cui atteggiamento, tra l'altro non pare tanto simile allo choc, alla rabbia ed alla disperazione che colpiscono chi apprende di aver perso entrambi i genitori.
Le stesse sorelle, Nadia e Laura, ne sono chiaramente stupite, e devono lor malgrado rendersi più sospette allorché Laura si accorge dell'uscita di 25 milioni dal conto della madre e trova, lo stesso giorno, la firma falsa di Rosa Tessari e la scritta della cifra per esteso sulla rubrica telefonica di casa; Pietro le rivela dell'assegno intestato a Giorgio Carbognin, aggiunge che era stata la loro madre a firmarlo, ma non sa spiegare il perché di quelle scritte di prova sulla rubrica.
Queste e altre incongruenze vengono fuori di ora in ora, così come le contraddizioni di Pietro durante i numerosi interrogatori. Stanco e pressato dagli inquirenti, il ragazzo confessa a tarda sera del 19 aprile, due giorni dopo il delitto. A ruota, anche i tre amici ammettono le loro responsabilità.
Conseguenze Giudiziarie
Tutti vengono arrestati per omicidio volontario, accusa che a chiusura d'istruttoria diventerà duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato. Le aggravanti sono infatti la crudeltà, i futili motivi e, per Pietro, anche il vincolo di parentela. Per la perizia psichiatrica, richiesta dal pubblico ministero Mario Giulio Schinaia, viene chiamato lo psichiatra, docente e scrittore veronese Vittorino Andreoli.
Il responso del professore contempla la sanità mentale per tutti e tre gli imputati (Burato, non essendo ancora diciottenne, verrà giudicato dal tribunale dei minori che lo condannerà a 13 anni) e quindi la piena capacità di intendere e di volere. Nello specifico caso di Maso, leader indiscusso oltre che figlio delle vittime, Andreoli parla di disturbo narcisistico della personalità, ma non si tratta di vera e propria infermità. Al processo, presso la Corte d'Assise di Verona, il pubblico ministero chiede quindi il massimo della pena per Maso e poco meno di trent'anni per gli altri due. La sentenza viene emessa il 29 febbraio 1992, con la condanna di Pietro Maso a 30 anni e 2 mesi di reclusione; Cavazza e Carbognin sono condannati a 26 anni ciascuno. Nelle motivazioni vi è il riconoscimento di un vizio parziale di mente.
Ad alimentare l'indignazione pubblica vi è pure l'atteggiamento freddo e distaccato dei tre imputati al processo. Oltretutto, per diversi mesi, Maso pretende insistentemente la propria parte di eredità; solo il sollecito del suo avvocato difensore, al fine di accrescere la possibilità di evitare l'ergastolo in primo grado, lo convincerà a rinunciarvi ufficialmente.
In secondo grado, la Corte d'appello di Venezia conferma la sentenza del primo. La Corte di Cassazione conferma poi a propria volta. La condanna passa quindi in giudicato.
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